Sono tantissimi: a voler azzardare un dato, almeno il 20% dei bambini italiani. Sono a rischio: 8 volte di più di un bambino dello stesso sesso e della stessa età. Sono i figli di persone con disturbi mentali gravi, e il rischio di cui si parla è uno spettro di possibilità variegato: dallo scarso rendimento scolastico all’abbandono degli studi, dalle disfunzionalità comunicative alle difficoltà di inserimento sociale, dall’aumento delle ripercussioni somatiche dello stress alla possibilità di sviluppare una vera e propria malattia mentale.
Li chiamano COPMI, acronimo dell’inglese Children Of Parents with Mental Illness, oppure Bambini Invisibili, a sottolineare la stortura che li vede al centro dell’attenzione del mondo sanitario-sociale solo in caso di abuso.
Ha fatto eccezione il convegno “Prevenzione in salute mentale: aiutare i figli di persone con disturbi mentali gravi”, organizzato dall’Istituto Fatebenefratelli di Brescia a giugno 2017. “Già all’età di 7 anni si possono percepire sottili anomalie motorie che rappresentano marker clinici per la prevenzione – ha affermato in apertura Giovanni De Girolamo, Psichiatra e Direttore Scientifico dell’Istituto, da diversi anni promotore di iniziative di studio e ricerca sul tema – ma il problema è: quale prevenzione? Non ho paura a dire che in Italia siamo molto indietro. Bisogna puntare con decisione sulla ricerca e sulle partnership con le realtà mondiali all’avanguardia”.
L’Australia, ad esempio: Darryl Maybery e Andrea Reupert, ricercatori alla Monash University, hanno portato al convegno di Brescia la loro esperienza di pionieri del settore a livello internazionale. I due psicologi hanno all’attivo la pubblicazione diversi libri (la traduzione in Italiano del più recente,“Parental Psychiatric Disorder. Distressed Parents and Their Families”, dovrebbe essere in procinto di uscire in questi mesi) e soprattutto la creazione di un ampio network di clinici, ricercatori e operatori al lavoro sul tema.
I BAMBINI INVISIBILI: AMPIEZZA E SPECIFICITÀ DEL PROBLEMA
“A un certo punto ci siamo resi conto che era cruciale dare un’idea il più precisa possibile delle dimensioni del problema” ha spiegato Darryl Maybery. “Lo abbiamo fatto, e oggi possiamo dire con una certa sicurezza che una percentuale compresa tra il 21 e il 23% dei bambini australiani, cioè circa 1 milione di persone, ha almeno un genitore con una malattia mentale. Il 40-60% di loro è considerabile a rischio. Per il mondo socio-sanitario il messaggio è questo: ci sono questi individui, circa 500mila persone, che rischiano diventare nostri pazienti e assistiti nei prossimi anni. Forse è il caso di muoverci prima!”.
Oltre che molto ampio, il problema è molto specifico: “Dalle nostre ricerche è emerso chiaramente che la prevenzione ‘per tutti’, cioè pensata in modo uniforme su tutta la popolazione, è di fatto inutile” ha aggiunto Maybery.
Che fare allora? La risposta non può che partire da un’altra domanda: quali sono i fattori per i quali i bambini sono considerati a rischio? Vale a dire, tradotto nelle parole che tanti operatori si sono sentiti rivolgere da madri e padri preoccupati: “Qual è la probabilità che mio figlio si ammali come me?”
I FATTORI DI RISCHIO: NON SOLO GENETICA
“Il primo messaggio che deve passare è che la trasmissione della malattia dei genitori non è inevitabile; non tutti i bambini si ammalano e non tutti nello stesso modo” ha affermato Andrea Reupert. L’aspetto genetico è solo una delle moltissime variabili in gioco: uno fra i tanti aspetti della vita del genitore, del bambino e del contesto che possono essere fattori di rischio o – al contrario – di protezione per la salute mentale di entrambi.

Slide presentata dal prof. Darryl Maybery (Monash University) nel convegno organizzato dall’Istituto Fatebenefratelli di Brescia a giugno 2017
Qualche esempio. Nel genitore malato fanno la differenza la tipologia, la gravità e la cronicità della malattia, la presenza di comorbidità (ad esempio l’abuso di sostanze), ma anche “la capacità di far fronte alle difficoltà” ha spiegato Reupert “l’autostima, le competenze genitoriali acquisite e il tipo di relazione che instaura col bambino (su un continuum che comprende l’abuso, la negligenza, l’ostilità e il rifiuto, lo scarso coinvolgimento o la risposta sensibile e attenta).
Altri aspetti discriminanti sono l’assenza o la presenza del secondo genitore, la sua salute mentale, la capacità di cura e le sue competenze genitoriali, e soprattutto il suo grado di consapevolezza della malattia del partner.
Anche il temperamento del bambino fa la differenza, così come le sue competenze cognitive e sociali, la capacità di gestire lo stress, l’autostima e soprattutto la consapevolezza che ha della malattia del genitore. “Questo è un punto chiave: dove la consapevolezza è scarsa o assente – ha sottolineato la Reupert – resta la percezione confusa di una situazione negativa di cui il bambino è inevitabilmente portato ad auto-incolparsi”.
Nel contesto familiare giocano un ruolo determinante il divorzio o la separazione dei partner, la presenza di violenza e le difficoltà economiche, ma anche la vicinanza di reti sociali (parenti, vicini, amici, compagni di scuola) in grado di fornire supporto o, al contrario, di creare una situazione di isolamento e stigma. Infine, è quasi superfluo dire che la fruibilità e la qualità dei servizi socio-sanitari a disposizione della famiglia possono influire in modo determinante sulla situazione complessiva.
DUNQUE: COME AIUTARE I BAMBINI (E GLI ADULTI)?
Se la vulnerabilità ha cause sia genetiche che ambientali, su quest’ultime si può agire: si può avere speranza. Il motto dell’Associazione COPMI – nata nel 2001 dal lavoro di una squadra di volontari e professionisti, tra cui Reupert e Maybery, e grazie al sostegno del Governo australiano – è proprio questo: “We can make the difference”, possiamo fare la differenza.
Come? “La chiave di tutto è la consapevolezza: la mancanza o la presenza, nel bambino, di una adeguata comprensione o conoscenza della situazione” ha affermato Reupert.
L’errore più commesso – ma anche il più grave – nasce spesso così: “Non voglio che la malattia pesi sulla vita di mio figlio. Lo terrò fuori da questa cosa”. “Pensare che i bambini ‘non si accorgano di nulla’ è un’ingenuità” ha spiegato infatti Reupert. “Se non bastassero le tantissime testimonianze che abbiamo raccolto dagli stessi COPMI, ci sono evidenze scientifiche che testimoniano come già a pochi mesi i bambini siano in grado di cogliere lo stress del loro caregiver primario” (cercate “still face experiment” su Youtube e ne avrete una prova quasi commovente).
La prima cosa da fare quindi, sembra semplice: parlarne. Fornire ai bambini gli elementi per comprendere la situazione, secondo la loro età e capacità; dare loro la possibilità di fare domande e di esprimere le loro emozioni a riguardo. Ma parlare per dire cosa? E in che modo?
“Ci sono alcuni messaggi-chiave che dovrebbero arrivare ai bambini che vivono l’esperienza della malattia mentale nei genitori” ha elencato Reupert. “Primo fra tutti, ‘Non è colpa tua’. E poi: ‘Non sei responsabile di trovare una soluzione; il tuo genitore si sta curando; ci sono persone a cui puoi parlare di questo, a cui puoi chiedere aiuto; va bene esprimere le emozioni che la malattia ti provoca, qualunque esse siano; va bene fare domande”.
Al di là di questa base comune, molto varia a seconda dell’età dei bambini. Il sito dell’Associazione COPMI, www.copmi.net.au, è una vera miniera di strumenti utilizzabili dai genitori e dai bambini: comprende schede informative su come affrontare l’argomento a seconda dell’età, ma anche, fumetti, libri per l’infanzia, video, infografiche, articoli, volumi e approfondimenti, tutti rigorosamente gratuiti.
Il secondo passo è a carico dei professionisti della salute mentale: “In questi anni di lavoro – ha raccontato Darryl Maybery – abbiamo capito che l’unico approccio efficace è quello ‘multiplo’: solo gli interventi combinati su bambini e adulti garantiscono effetti a lungo termine. Si parte da una valutazione della situazione complessiva della famiglia per arrivare a definire interventi molto specifici, anche perché su malattie differenti funzionano meglio approcci differenti”. Tra gli strumenti che nell’esperienza australiana si sono dimostrati più efficaci c’è il programma “Let’s talk about children”: “Un percorso terapeutico breve, da 2-3 sedute – spiega Maybery – esteso all’intera famiglia e guidato dai professionisti con l’obiettivo di ristabilire la connessione tra i membri, colmare le lacune di informazione, condividere un quadro della situazione basato sulla speranza e sull’ottimismo”.
IN ITALIA: PROGETTO SEMOLA E COMIP
Se è vero che le conoscenze più avanzate del settore sono nate agli antipodi del pianeta, anche in Italia si sta muovendo qualcosa. Si chiama SEMOLA – come era soprannominato il giovanissimo Artù nella “Spada della Roccia” Disney prima di essere accolto sotto l’ala protettrice di Mago Merlino – è il primo programma italiano di prevenzione del disagio psichico nei minori che vivono in situazioni familiari in cui sia presente una forma di sofferenza psichica. Il progetto – nato 5 anni fa – è il frutto di una collaborazione tra l’Associazione Contatto Onlus e il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASST “Grande Ospedale Metropolitano Niguarda” di Milano, ed è realizzato grazie ad un finanziamento della Fondazione Cariplo. Si rivolge agli utenti in carico al servizio psichiatrico territoriale, ai loro partner e ai figli di età compresa tra i 6 e i 16 anni, attraverso interventi psicoeducativi di matrice finlandese e americana volti a sostenere gli adulti nella loro funzione genitoriale, aiutandoli nel comunicare ai figli la sofferenza che stanno vivendo, a promuovere la capacità dei minori di far fronte in maniera positiva alle situazioni difficili, sostenendoli nell’esprimere i loro stati d’animo e le loro domande, e a migliorare la comunicazione e il benessere relazionale del nucleo familiare.
Anche Progetto Semola ha un portale web (http://www.mybluebox.it) concepito come una vera e propria “scatola della prevenzione”, aperta e accessibile a tutti, con risorse, strumenti e informazioni preziosi per genitori, figli e professionisti.
Solo due mesi fa, il 20 novembre del 2017, è nata invece CHILDREN OF MENTALLY ILL PARENTS – a.p.s. (COMIP), la prima associazione italiana creata da e per i Figli di Genitori con un Disturbo Mentale.
COMIP – voluta per dare voce a un dolore nascosto e costruire una rete di supporto e di sostegno per chi ha una mamma o un papà affetti da una patologia psichiatrica – ha sede in Umbria, presso il CESVOL, il Centro Servizi per il Volontariato di Terni, ma è suo obiettivo svolgere attività di advocacy, sensibilizzazione, formazione e prevenzione in tutta Italia (Info: www.facebook.com/comip.italia)
Un’ottima occasione per approfondire e aggiornare il quadro che qui abbiamo cercato di comporre è il secondo convegno nazionale “Adults for children – La Genitorialità nei Servizi Psichiatrici”, in programma il 1° febbraio 2018 nell’Aula Magna dell’Ospedale Niguarda, a Milano: all’incontro, che è organizzato con la Segreteria Scientifica di Corinna Biancorosso (Educatrice Ospedale Niguarda), Francesca Tasselli (Psicologa e Psicoterapeuta, Responsabile Progetto Semola per l’Associazione Contatto Onlus) e Alberto Zanobio (Psichiatra, Responsabile SS Psichiatria Comunità 2) parteciperanno esperti nazionali e internazionali del settore. L’ingresso è gratuito su prenotazione; è possibile iscriversi e consultare il programma completo della giornata nella sezione “Formazione” dell’Ospedale Niguarda.
Ilaria Gandolfi
Giornalista e volontaria di Progetto Itaca Parma
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